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Esiste anche un classicismo d’avanguardia, una restituzione nobile di forme sperimentali. Le ceramiche di Coletta sono forme che perlopiù fendono lo spazio, normalmente lo generano, nel colore lo aggrediscono per posizionarsi con forza all’interno dell’esistere. Dopo questo sforzo si posizionano, morbide e discrete, con il loro provenire da un’alta genìa di avi, timide ma visibili. Nella loro genesi si fa largo una grande tradizione di sperimentatori di forme scultoree, qualcosa che incontra lunga la riva Leoncillo e Brancusi, e risale la corrente, strizzando l’occhio ad Arturo Martini fino a giungere a Giacinto Cerone, indimenticato scultore. Queste bagatelle di poco conto, apparentemente trascurate e tirate via prima che il processo terminasse, sembrano appena modellate, le mani le hanno appena lasciate e abbandonate alla vita, allontanandosi lentamente, i palmi ancora leggeri e vicini alla scultura, per vedere se resistevano all’impeto dell’esistere. Il colore formatosi con la forma. La forma bambina, vacilla, resiste, ma nasce, decide che può farcela e si erge, fallica e infantile allo stesso tempo, orgogliosa e gentile. La forma nata prende vita da un mondo che trema, come impressione di luce sulle sculture di Medardo, ma al contempo come luccicanza. Abbiamo appena abbandonato le varianti più kitch di un Leoncillo o di un Fontana e stiamo cercando un esserci più materico. Lo stare in uno spazio occupandolo è la sua missione, retta e vigile, presente. È questo dunque il segreto di ogni creazione? Il suo bisogno di esistere. La sua necessità di vagire come forma impossibile prima di essere concepita, inesistente prima della nascita, misteriosa come la creazione stessa, carne e sangue che non sono ancora uomo. Così viene alla vita materia molle che non è ancora statuaria, né è detto debba esserlo, una scommessa con il fango. Scultorea, animale, passeggera, intima e generata. Questo il suo segreto, disegnarsi uno spazio dove spazio non c’era. Si instilla infine la vaghezza dell’idea di essere “di poco conto”, imbarazzo di essere vivi, gentilezza della timidezza, introversione. Appoggiate alla finestra con un drink cannuccia e ghiaccio le bagattelle guardano i colleghi danzare e corteggiarsi, nel gran ballo del Sistema Arte; si ritraggono su mensole e tavolini in mezzo a divani appositi di conversazioni notturne. Vigilano sull’idea stessa di forma che si relega e si delega a nuova vita incipiente. Infine eccole, presenti e nate fare i conti con il significato stesso (bagattelle) della poca o molta importanza di qualcosa, se mai questo concetto abbia avuto importanza.

Fabrizio Pizzuto